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IL COPY INCLUSIVO
NON È UN’OPZIONE.
È una responsabilità

“Inclusivo” è una di quelle parole che sembrano dover comparire per contratto in ogni comunicato aziendale, piano editoriale o linee guida di brand.
Ma che succede quando le parole si consumano? Quando da battaglia culturale diventano carta da parati?

 

Succede che rischiamo di perdere il senso. E oggi più che mai, non possiamo permettercelo.

La parola inclusività (e tutto ciò che le gira intorno) non è un vezzo lessicale, ma un tema radicale. Riguarda chi siamo, chi ascoltiamo, chi ignoriamo. Riguarda il diritto stesso di essere raccontatə. E come ogni diritto, va esercitato con attenzione, consapevolezza e senso del contesto.

Dove nasce la parola “inclusivo” (e perché è importante saperlo)

“Inclusività” nasce negli anni ’20 del Novecento sul modello della parola “esclusività”.

Prima si inventa il termine che identifica ciò che è riservato a pochi. Solo dopo, per reazione, arriva il suo opposto.

Un segnale tutt’altro che banale: il linguaggio, anche quando sembra neutro, è sempre il riflesso delle strutture di potere. E l’italiano ha ereditato questa parola da una lingua,  l’inglese, che ha cominciato a riflettere su questi temi con decenni d’anticipo rispetto a noi.

Ma non basta importare i termini. Bisogna comprenderli, problematizzarli, contestualizzarli. E il copy inclusivo inizia proprio da qui: da uno scarto consapevole rispetto al “si è sempre fatto così”.

Globalizzazione + Internet = contatto costante (e faticoso) con l’alterità

La globalizzazione prima, internet poi, ci hanno messo in condizione di entrare in contatto con diversità che prima ci erano remote o invisibili.

E questo contatto, continuo e inevitabile, ci mette davanti a un’evidenza: quello che è “normale” per te, potrebbe non esistere per qualcun altrə. Anzi, potrebbe essere escludente.

Perché la normalità non è un fatto, è una costruzione. E, a costruirla, sono le persone che hanno il privilegio di non avere etichette addosso.

La piramide del privilegio (spoiler: se non ci pensi mai, probabilmente sei in cima)

In una società costruita su parametri arbitrari, alcune persone si trovano nella condizione di non doversi mai giustificare, spiegare o definire.

In cima alla piramide ci troviamo il solito profilo: maschio, bianco, eterosessuale, cisgender, abile, neurotipico, benestante, di mezza età, culturalmente “neutro”. Ovvero conforme. Ovvero un Enrico come me e come tanti altri.

E se non sei un Enrico?

Succede che fai più fatica a essere ascoltatə, credutə, rappresentatə. Succede che il tuo diritto alla soddisfazione esistenziale viene discusso, condizionato, ignorato.

E sì, può sembrare eccessivo parlare di soddisfazione esistenziale in un articolo che tratta di linguaggio. Ma come ricordava Tullio De Mauro, senza linguaggio, niente polis. Niente vita in comune. Niente possibilità di esserci davvero.

Ma allora perché parli?

Bella domanda.

Dall’alto del mio privilegio, una delle cose (piccole, piccolissime) che posso fare è sfruttare questo mio spazio innato per fare da megafono.

Se non fai parte della norma dominante, infatti, spesso non hai nemmeno lo spazio per esprimerti. Il tuo punto di vista non è previsto, né previsto è il tuo linguaggio.

E così, anche nei copy, le persone marginalizzate restano marginalizzate. Meno rappresentate, meno ascoltate, meno credute.

Ma la soluzione non può essere il silenzio. La soluzione è prendere posizione. Anche con una headline. Anche con una CTA. Anche con un disclaimer.

Il linguaggio è potere. E può anche essere discriminazione

Il linguaggio non è uno specchio innocente della realtà. È uno strumento che può includere o escludere, legittimare o marginalizzare. E molte delle nostre scelte linguistiche quotidiane sono, consapevolmente o meno, sessiste, abiliste, razziste, classiste.

Un esempio tra tutti? Il maschile sovraesteso.

Quella regola grammaticale che rende il maschile la forma “neutra” di ogni gruppo misto. Una convenzione millenaria, certo, ma non immutabile. E soprattutto non neutra.
La lingua italiana è androcentrica perché è androcentrica la società che l’ha modellata.

Come evitare il maschile sovraesteso (senza suonare robotico)

Piccola anticipazione: non si tratta di infilare un asterisco ovunque o di sovraccaricare il testo di segni grafici. Si tratta, piuttosto, di ripensare le frasi, cambiare il punto di vista, cercare sinonimi, riscrivere con creatività.

Esempi?

  • Trasformare un sostantivo in verbo.
  • Evitare i participi passati.
  • Usare perifrasi.
  • Scegliere una parola neutra al posto di una marcata.

Il copy inclusivo non è una zavorra stilistica. È un esercizio di stile vero.

E tuttə lə altrə?

Finché ci si muove dentro al binarismo di genere, la lingua può (con un po’ di sforzo) fare la sua parte. Ma se il tuo genere non è né maschile né femminile, la situazione si complica.

Negli ultimi anni è aumentato il numero di persone che si dichiara non binary, genderfluid, genderqueer, agender, e moltə altrə. Una questione identitaria seria, oltre che un disagio reale: disagio dato NON dalla condizione non binaria, ma dall’essere impossibilitate a viverla pienamente.

Purtroppo,non abbiamo un modo “ufficiale” di non esprimere il genere, o forse, di esprimere il non-genere. E proprio per questo motivo, nel corso del tempo, nei contesti dove la presenza di persone non binarie è più frequente, sono state create delle soluzioni: ə, *, @, x e via dicendo.

Sono standard definitivi? No.
Sono comode? Neanche.

Ma sono uno sforzo per esistere. E come tale meritano rispetto.

Perché comunicare in modo inclusivo?

Perché usare un linguaggio inclusivo è un atto politico.

Significa riconoscere l’esistenza dell’altrə, credere nella convivenza delle differenze e assumersi la responsabilità di rappresentarle. Anche se sei un brand. Anzi: soprattutto se sei un brand.

E se le motivazioni etiche non dovessero bastare, ecco anche quelle di business: il 75% dellə italianə preferisce brand che si dimostrano attenti a diversità e inclusione. Lo dice uno studio condotto da Diversity e Focus Management.

Ma secondo noi, basterebbero le motivazioni di prima.

Occhio al woke washing (che il boomerang è dietro l’angolo)

Essere inclusivi non significa fare campagne arcobaleno a giugno o scegliere testimonial disabili una volta ogni tanto.

Inclusione è coerenza. È rispetto. È struttura, non stagionalità.

E quando non lo è, le persone se ne accorgono. H&M e Boohoo – per fare due esempi famosi – ci hanno provato.

H&M con la collezione “sostenibile” Conscious Choice Collection (senza mai fornire dettagli sull’iter di lavorazione) e Boohoo facendosi portavoce di messaggi femministi (per poi affrontare un’indagine per “schiavitù moderna” per aver pagato £ 3,50 all’ora operai e operaie – soprattutto operaie – di una fabbrica a Leicester).

Le accuse di greenwashing, pinkwashing e sfruttamento li hanno travolti. E il danno reputazionale è stato ben più grande del benefit di awareness.

Conclusione (che conclusione non è)

Il copy inclusivo è una questione culturale prima che formale. È uno specchio della società che vogliamo costruire. È una promessa fatta parola.

E come ogni promessa ben scritta, va mantenuta.

Vuoi saperne di più?